La seconda notte nella Selva amazzonica, dormivamo in un accampamento lontano un giorno a piedi dal villaggio sul Río Beni, che avevamo raggiunto dopo quattro ore di navigazione in lancia da Rurrenabaque, l’entrata boliviana alla foresta.

La nostra spedizione era composta da noi cinque donne e guidata da Domingo e David.

Quel giorno avevamo camminato sotto la pioggia costante che arrivava a malapena addosso perché era trattenuta dalla giungla che ci inglobava in un planetario verde.

Arrivammo in tempo all’accampamento, mentre faceva buio, sporche di fango fin sotto le unghie delle mani e con i pollici segati dalle liane, vitali in alcuni promontori sul fiume.

La luce delle candele era l’unico elemento più umano che si poneva tra il firmamento spudorato e la voce di Domingo che evocava storie di sciamani e di spiriti che vivevano a un passo da noi.

Quella sua cantilena metallica, i versi degli hoatzin che si agitavano tra gli alberi sulla mia testa, lo stridere di altre creature che risuonavano tutt’intorno, da una vastità all’altra, mi tennero con gli occhi spalancati fino all’alba. 

La Madre Terra, gli occhi degli indigeni, l’albero sacro della Selva, i corsi d’acqua che si ramificano come le arterie di un cuore mi indicavano le carni di Dio in terra.

Nel viaggio di ritorno, vedevo l’Amazzonia allontanarsi alle mie spalle e le lacrime cadevano giù tra le eliche del velivolo che mi portava via. La foresta dall’alto si agitava come un polmone che incamera ossigeno mentre io sentivo sgretolarmi, trattenermi da una energia che non voleva riportarmi indietro.

Valentina Barile, narratrice di viaggio

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