Nell’ultima sua intervista Andrea Camilleri diceva così: «Al punto in cui sono arrivato mi piacerebbe avere un’idea più precisa dell’eternità. A 93 anni, hai certezza del fatto che l’eternità ti stia venendo incontro, qualunque essa sia, e qualunque forma essa abbia». 

Perché un ateo dichiarato come Camilleri parla di ‘eternità’, mentre l’ora della morte gli si avvicina? 

Per capire cosa Camilleri intenda per ‘eternità’, forse, bisogna appellare i Greci, che non concepivano una vita trascendente dopo la morte fisica. L’Ade stesso era pensato come un luogo oscuro e infelice, dove le ombre dei morti si aggiravano senza più storia; mentre l’uomo è brotós, colui che muore, che sta morendo in ogni istante. L’unica forma di immortalità, pertanto, è quella narrativa: attraverso la narrazione delle gesta, la gloria dell’eroe può essere trasmessa ai posteri, come un’onda di luce che sfavilli dal buio dell’Ade. Il mythos, in definitiva, è l’unico logosappropriato a «colui che muore» (Simone Weil), mentre «ciò che noi oggi chiamiamo “letteratura” è l’unica religione che i Greci ci abbiano lasciato in eredità. L’unica nostra fede di miscredenti senza fedi trascendenti» (Antonio Scurati).

Sì, mi sembra che Camilleri faccia esattamente questo: continuare a interrogarsi sull’ordine della temporalità, senza immaginifiche, fantasmatiche rappresentazioni. Una temporalità intesa come kairós, però, e non come chrónos: non si tratta quindi della durata astratta del tempo che scorre, ma di un tempo qualitativo. È il tempo giusto, più propizio, quello in cui accade la cosa buona. Insomma, il tempo specifico in cui il logos si fa mythos, in cui la narrazione si fa lampo di luce che illumina una morte splendida e memorabile. La morte dell’eroe, che il racconto rende ‘immortale’.

È questo il senso dell’eternità cui allude Camilleri, quindi.

Il tempo giusto. Il tempo della parola, che è ragione ed avrà ragione della peste.

Gianluca Aceto

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